Questo articolo è stato pubblicato, la prima volta, su L’Unità del 9 aprile
In questo tempo in cui, secondo Bauman, “l’incertezza è l’unica certezza”, anche il lavoro e le tutele sprofondano nella liquidità e nella discontinuità. In tale contesto il nostro compito è quello di ripristinare l’universalismo dei diritti sociali e civili e promuovere un nuovo umanesimo del Lavoro. La sinistra, negli ultimi quarant’anni, è stata subalterna alla filosofia liberista e all’ideologia del mercato.
Dobbiamo riappropriarci delle nostre parole e liberarci di quelle che non sono nostre. Riappropriarci della parola ideologia, intesa come contenitore di valori. Della parola ultimo, per poterlo tutelare di fronte al vincitore. Sbarazzarci dell’idea del rigore come unico metodo per mantenere l’equilibrio del sistema. Della convinzione che la libera concorrenza senza regole sia un bene assoluto. Che privatizzazioni e liberalizzazioni siano buone in sé. Che tariffe ed equo compenso per le professioni siano fattori negativi. Che la globalizzazione rappresenti sempre una opportunità.
Assumiamo l’uguaglianza come stella polare della nostra azione politica – intesa, come ha spiegato Bobbio – “non come l’utopia di una società in cui tutti gli individui siano uguali in tutto, ma come tendenza a rendere più eguali i diseguali”.
Per questo è necessario realizzare una nuova architettura del Welfare e dare al lavoro regole adeguate. In un tempo nel quale si viene licenziati sempre più presto, paradossalmente la pensione si allontana sempre di più. Questo non funziona. Le sponde del fiume sono troppo larghe e il ponte troppo corto. Precipitare nell’acqua significa scivolare nel circuito della povertà.
Questa è una condizione da superare. Ma come? Accorciando le distanze. Cioè, anticipando il momento della pensione – su questo abbiamo condotto la lunga battaglia per la flessibilità -, allungando la durata degli ammortizzatori sociali e facendo funzionare le politiche attive per il lavoro. E’ inoltre fondamentale che i diritti garantiti siano universali, validi per tutti i lavori: per quello autonomo come per quello dipendente. Il nuovo Statuto del lavoro autonomo, che presto diventerà legge, contempla, infatti, i diritti di maternità, di malattia e la deducibilità delle spese di formazione; l’istituzione – dal luglio di quest’anno – dell’indennità di disoccupazione per i collaboratori coordinati e continuativi e per borsisti e assegnisti. Una piccola rivoluzione che va continuata.
Alla logica della destra che impone il principio di derogabilità a leggi e contratti, va sostituita la logica di sinistra della loro inderogabilità e delle soglie minime, salariali e normative. Ciò può essere realizzato attraverso la contrattazione tra le associazioni sindacali dei lavoratori e quelle datoriali maggiormente rappresentative e, per chi non ha il contratto, fissando un salario minimo di legge. E per i liberi professionisti, ordinisti e non, si deve introdurre il principio dell’equo compenso e il ripristino delle tariffe o dei parametri professionali. Accanto a questo, una nuova architettura sociale deve anche prevedere che, per i giovani, si vada nella direzione di un lavoro e di una pensione di inclusione. Si tratta di mutare logica e prospettiva partendo dal prendere atto del fallimento del Jobs Act, soprattutto su due versanti: abbiamo bisogno di incentivi strutturali che rendano più conveniente il lavoro a tempo indeterminato rispetto a quello flessibile. Il lavoratore che deve essere assunto deve avere una dote personale di sgravi fiscali da consegnare al datore di lavoro solo nel caso in cui si realizzi il passaggio a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda i licenziamenti, aver tolto di mezzo anche la residua protezione dall’articolo 18 prevista dalla Fornero, è stato sbagliato. Proponiamo di intervenire sul licenziamento economico e, nel caso in cui non ci sia una giustificazione economica reale, vada prevista la reintegrazione del lavoratore. Per i licenziamenti disciplinari bisogna ripristinare una relazione tra l’infrazione e la sanzione, attraverso un principio di proporzionalità.
Sul terreno della previdenza, per i giovani che avranno una pensione regolata interamente con il sistema contributivo, bisogna consentire di raggiungere uno standard di dignità. Quale standard? 1.500 euro lordi mensili – circa 1.100 euro netti-: la pensione di un operaio metalmeccanico dopo 35-40 anni di contributi. Se il lavoratore, coi suoi versamenti, arriva a quel livello, non ci sarà bisogno di intervenire. Se non ci arriva, dobbiamo sussidiarlo con un intervento corrispondente all’attuale assegno sociale di circa 500 euro, utilizzando anche le risorse dell’integrazione al minimo che sono scomparse nel sistema contributivo. Si tratta di molti miliardi che vanno destinati alla pensione dei giovani e rimanere nel sistema previdenziale, e non essere sottratti per diminuire il debito dello Stato come è avvenuto con il Governo Monti. Al Programma di Orlando non mancano di certo una visione di prospettiva e le proposte concrete.
Cesare Damiano
Deputato
Eletto in Piemonte, è Presidente della XI Commissione permanente (Lavoro pubblico e privato). È stato ministro del Lavoro nel secondo Governo Prodi. In precedenza, dirigente sindacale nella Fiom-Cgil e nella Cgil.