Il PD: un progetto incompiuto, un partito da ripensare
Il Partito Democratico è nato poco più di dieci anni fa. Ed esattamente dieci anni fa che si è innescata la crisi economica con il crollo di Lehman Brothers. Nel giro di un anno la crisi si è manifestata globalmente, andando a colpire soprattutto i Paesi in cui era maggiormente cresciuto il debito pubblico, come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia. Ed è lecito e necessario chiedersi con quali strumenti culturali e politici si sia affrontata questa decade.
Il 27 giugno 2007, Walter Veltroni pronunciava il discorso del Lingotto. Ebbe a dire Veltroni: “Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di esse, di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto.” Ebbene, c’è ragione di dire che quella promessa non sia stata mantenuta. Se essa è stata metabolizzata e fatta propria da gran parte dei militanti democratici, altrettanto non si può dire per le leadership che si sono succedute alla guida del Partito. Cìò in cui si è fallito culturalmente nella fondazione del PD e a cui non si è, poi, mai messo mano, è stato non aver fatto una sintesi. E questo perché non è stata fatta una nostra Bad Godesberg – programma con il quale, nel 1959, la Spd tedesca assunse un nuovo indirizzo cultural-politico – con la definizione di un programma fondamentale. La piattaforma dovrebbe partire da questo. Non rimescolando le culture di origine (il fallimento è tutto qui) ma cercando una sintesi ben definita.
Ma questo fallimento discende principalmente dall’incapacità o dal rifiuto di affrontare i suddetti nodi strutturali imposti dalla globalizzazione, dove lo Stato democratico ha perso di credibilità tanto da allontanare una crescente massa di cittadini dallo stesso procedimento elettorale.
In conseguenza di questa mancata nuova sintesi e della struttura disfunzionale dello Statuto, è stato marginalizzato il ruolo dei veri proprietari del Partito: gli iscritti.
Quello del Partito Democratico è uno Statuto mal pensato in funzione di un epoca che, se c’è mai stata nella realtà, oggi sicuramente non esiste più: quella del bipolarismo. Il bipolarismo non appartiene alla cultura politica degli italiani e anche nel lasso di tempo in cui a confrontarsi nel teatro politico sono state le coalizioni del centrosinistra e del centrodestra, esse erano frammentate al proprio interno. Il periodo tra la fine della stagione delle riforme istituzionali, con la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, e le elezioni del 4 marzo 2018, ha fatto emergere un panorama politico articolato e inedito: le formazioni prevalenti nella stagione precedente, Partito Democratico e Forza Italia sono state ridimensionate in modo drammatico. Il MoVimento 5 Stelle, già emerso come forza di rilievo nel 2013, è stato il più votato dagli italiani. La Lega ha assunto la leadership della destra.
Lo Statuto del Pd deve essere perciò riformato radicalmente. Il Partito deve tornare ad appartenere a coloro che si assumono la responsabilità di iscriversi in conformità all’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il “Partito leggero”, basato sul sistema delle primarie aperte, strumento di allargamento della base in una prospettiva maggioritaria, non ha più alcun senso. Perché iscriversi e assumersi la responsabilità e l’onere della militanza quando chiunque, presentandosi con due euro e la tessera elettorale, può decidere delle sorti della tua organizzazione? Questa forma ha, anzi, favorito la crescita di gruppi di potere fondati sul governo di pacchetti di voti amministrati da “capibastone”. Questa non è democrazia. L’iscritto democratico non ha alcun mezzo per contribuire al dibattito e al processo decisionale e di selezione della classe dirigente. Se è mai esistita nella realtà, l’epoca che avrebbe richiesto l’esistenza di un “Partito leggero” è finita. È necessario prenderne atto, ricostruire l’organizzazione, promuovere il valore della partecipazione e della militanza e del potere decisionale che questa deve conferire. La carica di segretario nazionale non può più sommarsi a quella di “candidato alla premiership”: vogliamo un Segretario a tempo pieno. Inoltre, in Italia non è mai esistita l’elezione diretta del capo dell’Esecutivo. È ora di uscire da questa finzione. Lo Statuto del Partito Democratico è un’illusione senza fondamento che ha distrutto la dialettica e il processo democratico interni.
La “creazione nuova” evocata nel 2007 da Veltroni può nascere solo dall’avvio di un nuovo processo democratico che liberi le energie e le capacità dei nostri iscritti, permetta un vero confronto culturale che favorisca quella “unione delle culture” che mai è avvenuta. Perché non è vero che le ideologie sono morte. Le ideologie sono l’espressione politica delle inclinazioni sociali e dei valori di ognuno di noi. E ideologica è la proposta delle forze che sono oggi al Governo: essa è basata sull’isolamento, la difesa dei confini dai migranti, la lotta all’Unione Europea, la paranoia verso i “poteri forti”. È la logica, fondamentalmente di destra, che si debba governare contro un “nemico” identificato, via via, in un qualsiasi “altro”. E che spinge verso la riduzione degli spazi di libertà in cambio di una qualche forma di inclusione. Siamo di fronte a un’incombente caduta della democrazia liberale tanto in Italia, quanto nel resto del mondo.
Le forze che hanno guidato lo sviluppo post-bellico in Europa, fino alla rivoluzione dell’ultra-liberismo alla fine degli anni 70 del XX Secolo, sono state quelle del cristianesimo democratico, del liberalismo, del socialismo democratico che in Italia ha trovato espressione di massa anche nel Pci, eredi, tra l’altro, della tradizione del socialismo e del cattolicesimo sociale delle origini che affondano nel Manifesto fondativo del Partito Socialista (1892) e nella enciclica “Rerum Novarum” (1891). Dobbiamo recuperare la scintilla ideale di quelle forze che costruirono sviluppo ed equità sociale. Ne proponiamo una sintesi eccellente definita da Carlo Rosselli nel suo “Socialismo liberale”: “Il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà. Il socialismo, inteso nel suo significato più sostanziale e giudicato dai risultati […] è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente”. Perché la disuguaglianza, la perdita di prospettiva, l’assenza di speranza che segnano quest’epoca sono assenza di libertà.
Dobbiamo trovare nelle nostre radici la spinta da opporre al dispotismo che monta nel mondo e ricostruire un senso di giustizia, libertà, uguaglianza e democrazia in una società che dia a tutti un’opportunità di emancipazione.
In conclusione, l’orizzonte valoriale è l’anima di un Partito. Sì all’ideologia come contenitore di valori.
L’eguaglianza nella democrazia sia il nostro valore guida.