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  di Marco Giordano

“Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città.”

Così Pier Paolo Pasolini descrisse l’atmosfera intorno ai funerali di Giuseppe Di Vittorio – autorevole politico e sindacalista -, scomparso sessanta anni fa, il 3 novembre del 1957. Il viaggio della sua salma da Lecco – dove si trovava per un comizio al momento della morte – a Roma è entrato nella storia: ad ogni stazione ferroviaria il treno dovette sostare sempre più a lungo per la folla di persone accorse a salutare Peppino, l’uomo del popolo.

Di Vittorio era figlio di braccianti agricoli. E fu costretto a fare, a sua volta, il bracciante in seguito alla morte del padre, per un incidente sul lavoro, nel 1902. Nonostante la situazione famigliare complicata, egli non smise di apprendere da autodidatta a leggere e a scrivere, tenendo un quaderno in cui annotava termini ignoti che udiva e mettendo da parte faticosamente i soldi per acquistare un vocabolario. Già negli anni dell’adolescenza, iniziò un’intensa attività politica e sindacale, in un contesto difficile e di lacerante povertà, in cui i latifondisti si arricchivano a spese dei poveri contadini pugliesi e di tutto il meridione. È qui che Di Vittorio scelse di donare la sua vita al servizio degli altri, facendosi difensore dei diritti dei lavoratori e della dignità umana. Durante la guerra civile spagnola combatté per l’antifascismo, fu incarcerato dai nazisti a Parigi e, in seguito, liberato dai partigiani. Il suo senso del dovere, il rispetto per la persona umana, l’amore per la cultura e la fiducia nell’intelletto, hanno gli hanno permesso di diventare guida per il riscatto di tutti i braccianti.
Capì, fin dall’inizio, che il vero padrone da sconfiggere era l’analfabetismo e che a qualsiasi battaglia per i lavoratori, doveva essere anteposta e accostata una battaglia culturale contro l’ignoranza e i pregiudizi: “Non dovete togliervi più il cappello di fronte a nessuno, di fronte al padrone, perché siete uguali agli altri”.

Dopo essere divenuto segretario della Federazione Sindacale Mondiale, fu eletto prima segretario della Cgil e poi, nel 1946, deputato dell’Assemblea Costituente con il Pci. Di Vittorio non solo fu padre della contrattazione, dell’articolo 40 della Costituzione (diritto di sciopero) e dell’unità dei lavoratori. Fu anche precursore lungimirante della rivendicazione dei diritti umani dei lavoratori, imponendo quei limiti oltre i quali non può andare nessun datore di lavoro senza violare i diritti e le libertà individuali e inalienabili della persona. In tutta la sua esperienza politica e sindacale, Di Vittorio non ha mai perso il contatto con la realtà, con le sofferenze e i bisogni di tutti i lavoratori. Al contrario, fu sempre in prima linea, consapevole della necessità di essere presente sul territorio. Proprio per questo decise, nel 1952, di candidarsi, risultando tra i primi eletti, al ruolo di consigliere comunale di Roma. Qui egli continuò le sue battaglie sindacali per i lavoratori romani e, al contempo, rese il sindacato presente in modo diffuso e capillare su tutto il territorio nazionale.

Celebrare il sessantesimo anniversario della scomparsa dello storico dirigente della Cgil e del Pci non deve essere un mero esercizio retorico. Anzi: ci obbliga a discutere e riflettere sulle sue straordinarie intuizioni, ma anche sulla condizione del lavoro, oggi, nel nostro Paese. Per quanto siano cambiati i tempi, il contesto, il linguaggio, la società, e con essi si siano modificate anche le esigenze e le necessità del lavoratori, è ugualmente necessario combattere le nuove forme di prepotenza e di sfruttamento che, sempre più rapaci, pervadono ogni settore economico, come ci ricorda Marta Fana nel suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento” (Tempi Nuovi, 2017). Nel nostro tempo si fa sempre più dilagante la politica del lavoro gratuito come precondizione per ottenere, in un domani non definito, un lavoro remunerato. Basti pensare alla situazione dei giornalisti pagati due euro ad articolo così come ai commessi con turni di dodici ore o ai facchini di Amazon. Le situazioni a rischio, nella nostra epoca del lavoro, si trovano sia nella grande distribuzione e nei servizi pubblici, sia nei cosiddetti lavoretti, dietro la GIG economy, nelle forme di lavoro gratuito, nel lavoro a chiamata, per non parlare del lavoro nero o lavoro povero. La tanto declamata flessibilità, che neutra non è, scarica il suo peso sulla parte più debole della società, vale a dire sul lavoratore che si trova in balia della disoccupazione e della precarietà. Il lavoro povero e lo sfruttamento caratterizzano, oggi, anche il settore pubblico, insieme a un’esternalizzazione e a una privatizzazione della produzione e della distribuzione dei servizi pubblici. Sono molte le questioni che rimangono permanenti, a tal punto da dare l’impressione di tornare indietro nella storia o ancor peggio la sensazione opprimente del non essere mai andati avanti. Ciò che si rivela sempre più necessario fare, è cercare di ridurre le diseguaglianze sociali, offrire condizioni di vita sopportabili alla parte più povera della popolazione, affrontare il problema dell’integrazione delle minoranze, creare condizioni stabili per l’ingresso dei giovani nel lavoro, dare una pensione dignitosa – a un’età accettabile – agli anziani. Ancora, arginare un sentimento fascista, sempre più diffuso, dettato dalla rabbia e dall’incertezza verso un futuro, sempre più temporalmente breve, al punto da definirlo semplicemente “domani” o, nella peggiore delle ipotesi, “oggi”.

“(…) il diritto di tutti i lavoratori a liberarsi dall’attuale situazione di disagi e miserie, dalla permanente incertezza di vita, dalla perpetua minaccia di disoccupazione e ad elevarsi ad una condizione sociale e umana più giusta.”

È impossibile non riconoscere l’estrema attualità di queste parole pronunciate da Di Vittorio in un suo comizio. Un linguaggio semplice e diretto, proprio come quello dei suoi contadini, la sua gente che lavorava calpestata nella dignità e nei diritti ,dall’alba al tramonto, per un tozzo di pane e olio.
Peppino, come lo chiamavano nella sua terra, era un uomo estremamente umile, sempre a fianco degli ultimi, anche dopo essere diventato un grande leader. La sua è una storia da ricordare ogni giorno perché ha molto da insegnare, oggi più di ieri. È stato un grande sindacalista e un grande politico, perché prima di tutto è stato un grande uomo, dotato di grande sensibilità e razionalità allo stesso tempo. Anche Di Vittorio, come Ercole, ha dovuto superare molte sfide. Ma più che un eroe, è stato un uomo dotato di grande coraggio e orgoglio, che ha deciso di combattere ingiustizie e pregiudizi, e che goccia dopo goccia è riuscito a scavare anche la pietra più dura, non arrendendosi mai. Lì dove molti si sentivano sconfitti dalla situazione di quei tempi e dall’inevitabilità del non poter migliore la propria condizione e dalla condanna all’ignoranza, Di Vittorio ha deciso di cambiare partendo, prima di tutto, da sé stesso. Aveva capito che la vera forza risiedeva nella cultura: per lui le parole erano dignità. Ha guadagnato, giorno dopo giorno, la fiducia dei contadini, prima, e degli operai delle industrie del Nord, degli impiegati della pubblica amministrazione, poi. Soprattutto non ha mai lottato da solo. Ha lottato per i lavoratori e con i lavoratori. Prima di molti altri, aveva capito che se si antepone al concetto di società e di collettività quello di individuo, si è destinati a fallire.

Marco Giordano

Marco Giordano

Coordinatore cittadino Sinistra PD-Laburisti Roma.

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