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di Mara Carocci, deputata PD

 

Il punto di partenza non può che essere la finalità della scuola: istruire e formare studenti e studentesse che abbiano conoscenze e competenze per diventare cittadini a tutti gli effetti.

Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo.

È tempo di una riflessione di respiro sulla scuola, che vada oltre le contingenze e la polemica politica. Una riflessione che renda protagonisti la politica, le scuole, le associazioni professionali e i sindacati: quei “corpi intermedi” che devono riacquistare la funzione di ricomporre e superare gli individualismi, raggiungere la mediazione fra istanze diverse nell’interesse della collettività, riappropriarsi di una funzione anche pedagogica, di visione del futuro.
Il punto di partenza non può che essere la finalità della scuola: istruire e formare studenti e studentesse che abbiano conoscenze e competenze per diventare cittadini a tutti gli effetti. Scontato, ma spesso solo a parole perché in genere si finisce per parlare solo di docenti, anzi, di categorie e sottocategorie di docenti.
Beninteso, si devono tenere insieme i due soggetti, perché il bene degli studenti non può prescindere dalla soddisfazione dei docenti, ma uscendo tutti dall’autoreferenzialità: perseguendo solo interessi individualistici si perde, alla fine, tutti.

Per questo mi pare si debba riprendere una riflessione sulla scuola e sui docenti, che potrebbe cercare di tenere insieme diversi aspetti:

  • gli organici
  • i cicli scolastici
  • la carriera.

Riflessione che in qualche modo è cominciata proprio in questi giorni, anche se con toni spesso più saccenti che informati. Lo sforzo che si deve fare è discutere seriamente, senza steccati di parte, ciascuno per le proprie competenze e responsabilità, di argomenti di cui si dibatte senza risultati definitivi da circa vent’anni, anni che hanno viso il proliferare di riforme iniziate e stravolte dai vari governi che si sono succeduti: colpa della “politica” soltanto, o responsabilità comune dei vari corpi intermedi che, comunque, non sono riusciti a fare sintesi di posizioni frammentarie, spesso arrendendosi a posizioni corporative o di mero contrasto politico?

Partiamo dagli organici. Quale che sia il giudizio sulla legge 107 non si può negare che il numero di assunzioni in ruolo non abbia precedenti (162.000 in totale: 90.000 nel 2015, 20.000 con il primo concorso, 52.000 nel 2017-18). Come pure era chiaro che queste assunzioni, in numero maggiore rispetto all’esigenza di copertura delle cattedre, era finalizzato non solo alla riduzione del precariato, ma all’attuazione di quanto da anni si veniva chiedendo: un organico che rendesse possibile supportare altre necessità, cioè il rinnovamento della didattica, interventi per gli studenti in difficoltà, possibilità di coprire supplenze brevi e così via. Lo chiamavamo, ai tempi in cui ci battevamo per ottenerlo, organico funzionale; gli si è dato corpo con l’organico dell’autonomia.

Dobbiamo però constatare che i risultati non sono quelli che avremmo voluto: in alcune realtà funziona, in molte no. Le responsabilità sono molteplici, a partire da quelle del MIUR, che non ha saputo gestire le varie fasi, e che, dopo il primo anno, avrebbe dovuto coprire le richieste delle scuole, come è esplicitamente affermato nella legge (art. 1 commi 5 -6- 7): comma 5. Al fine di dare piena attuazione al processo di realizzazione dell’autonomia e di   riorganizzazione   dell’intero   sistema   di istruzione, è istituito per l’intera istituzione scolastica, o istituto comprensivo, e per tutti gli indirizzi degli istituti secondari di secondo grado afferenti alla medesima istituzione scolastica l’organico dell’autonomia, funzionale   alle   esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche come emergenti dal piano triennale dell’offerta. I docenti dell’organico dell’autonomia concorrono alla realizzazione del piano triennale dell’offerta formativa con attività di insegnamento, di potenziamento, di sostegno, di organizzazione, di progettazione e di coordinamento. comma 6. Le istituzioni scolastiche effettuano le proprie scelte in merito agli   insegnamenti e alle attività curricolari, extracurricolari, educative e organizzative e individuano il proprio fabbisogno di attrezzature e di infrastrutture materiali, nonché di posti dell’organico dell’autonomia. comma 7. Le istituzioni scolastiche (…) individuano il fabbisogno di posti dell’organico dell’autonomia, in relazione all’offerta formativa che intendono   realizzare.

A questo si aggiungono le responsabilità dell’amministrazione periferica, che spesso non ha adeguatamente supportato i dirigenti e le scuole con attività di formazione e consulenza.
Ma le resistenze e le responsabilità dell’insuccesso stanno anche da altre parti: si denunciano realtà in cui i docenti dell’organico “potenziato” (che non esiste, essendovi l’organico dell’autonomia, unitario, in cui tutti i docenti hanno lo stesso ruolo) sono utilizzati solo per supplenze, e altrimenti tenuti a far niente. Ma questo è precisa responsabilità dei dirigenti scolastici, e di quei collegi dei docenti nei quali si manifestano resistenze a modificare lo status quo.
In generale, si è assistito a una acquiescenza burocratica legata ai vecchi modi di gestione del personale e della didattica, che ha spesso vanificato la portata innovativa della legge. E mortificato l’autonomia.
Una grande possibilità data alle scuole, una conquista richiesta da anni in parte vanificata dall’uso distorto che spesso ne è stato fatto e che richiede correttivi immediati: dare alle scuole gli insegnati richiesti ma anche, nella situazione attuale, utilizzare quelli assegnati senza discriminazioni.
È indispensabile, ciascuno per le proprie responsabilità, ripartire dallo spirito del nuovo organico anche con una riflessione su quale nuovo insegnante ne può scaturire, esprimendoci su quale figura di docente puntiamo.
Questo anche alla luce del dibattito, che recentissimamente si è riaperto, sui cicli scolastici, innescato dalla sperimentazione di 4 anni per le superiori.
Un dibattito che, con fasi latenti, si protrae da circa un ventennio, ma che ai tempi, durante il ministero Berlinguer (legge 30/2000, abrogata dalla 53/2003 della Moratti), vide impegnate in una fase feconda di elaborazione le associazioni professionali, che svolsero una profonda riflessione sull’epistemologia delle discipline e sui saperi fondamentali che dovevano essere alla base dell’insegnamento, partendo dall’ovvio (ma evidentemente non tanto) presupposto che i ragazzi non sono recipienti da rimpinzare di nozioni all’infinito, dovendosi piuttosto individuare i nuclei fondanti delle discipline per puntare su quelli. Ai tempi le difficoltà vennero soprattutto dai disciplinaristi: ognuno riteneva imprescindibili tutti i contenuti della propria materia, vanificando la ricerca su cosa vuol dire “insegnare ad imparare”, che è ciò che veramente serve nella società della conoscenza.
La riflessione su questi temi è propedeutica a quella sull’eventuale riduzione della durata degli studi, sull’obbligo a 18 anni, sulla revisione dei cicli. Deve essere chiaro cosa insegnare e come (tenendo fermo che nella società della conoscenza ciò che è importante veramente è insegnare a imparare), per decidere come articolare nei tempi e nei modi l’organizzazione scolastica.
Su questa base si deve discutere, tutti insieme, delle proposte, che sono state, e sono, diverse. Ne elenco solo alcune a titolo di esempio.
Nella riforma Berlinguer era prevista, dopo la scuola dell’infanzia, la scuola di base per sette anni la cui articolazione interna doveva essere stabilita da un successivo DpR, seguita da 5 anni di scuola secondaria. Lo scoglio da superare, non affrontato, era soprattutto quello dell’articolazione della scuola di base, per cui pareva si ipotizzassero 5 anni di “elementari” e 2 di “medie”.
Altra ipotesi era quella di un anticipo a 5 anni, eventualmente rendendo obbligatoria la frequenza dell’ultimo anno di scuola dell’infanzia.
Attualmente è in campo il 4+4+4: tre segmenti, primario, intermedio e superiore, di 4 anni ciascuno, che incardinerebbe un segmento specifico centrato sulla preadolescenza nel tentativo di superare le difficoltà attuali della scuola media.
Ogni ipotesi, comunque, pone anche problemi di utilizzo del personale, che dovrebbero però essere subordinati, e non preordinati, alle finalità della scuola.
E si tratta, per arrivare all’ultimo punto, di rafforzare anche la capacità organizzativa della scuola, per metterla in grado di aggiornare la didattica, di preparare adeguati piani dell’offerta formativa, per sperimentare organizzazione di orari, spazi, gestione che supportino e consentano le innovazioni didattiche, contemporaneamente riconoscendo la professionalità di molti docenti: è necessario, quindi, rivederne il profilo professionale, prefigurando anche la possibilità di avanzamenti della carriera.
I modi di individuazione, utilizzo e retribuzione delle “figure intermedie” dedicate a queste attività, indispensabili alla vita di una scuola, possono essere diversi.
Quello attuale vede il pagamento, di solito esiguo, di funzioni strumentali con fondi appositi e di incarichi ad hoc con fondo di istituto.
Non esiste, quindi, una possibilità di carriera vera e propria per il docente italiano, che fa un lavoro che non offre prospettive di sviluppo se non quello di diventare dirigente scolastico, che però è mestiere molto diverso.
Secondo un’indagine della CISL svolta nel 2013, l’assenza di possibilità di carriera e di una diversificazione dei compiti che possa intervenire in diversi stadi della vita professionale o in conseguenza di particolari capacità o titoli, costituisce un elemento di debolezza della professione e non consente al sistema di capitalizzare le competenze acquisite dai docenti. La professione appare fondamentalmente statica e poco incentivante. La costruzione di percorsi di sviluppo professionale per i docenti potrebbe rappresentare un’interessante sfida da affrontare nel contratto collettivo nazionale.
In molti paesi europei la progressione delle retribuzioni è legata a una pluralità di fattori, tra i quali l’anzianità, la partecipazione allo sviluppo professionale continuo e alla possibilità di assumere incarichi oltre le attività d’aula. Per esempio in Inghilterra, Francia, Spagna e Canton Ticino, la professione del docente è piuttosto differenziata al suo interno e l’articolazione della funzione risulta direttamente correlata al modello organizzativo adottato dalle istituzioni scolastiche e agli indirizzi delle politiche territoriali e nazionali. Sono stati distinti ben quindici profili differenti.
Questi dati confermano quelli di un’altra indagine molto precedente, questa svolta della CGIL, condotta nel 2000, da cui si rileva che in Gran Bretagna una possibilità di avanzamento è data dal superamento di un esame nazionale per diventare docente esperto, con compiti di tutor rispetto agli altri docenti. In Francia, sempre dopo il superamento di un esame nazionale, piuttosto difficile, si acquisisce il titolo di agregés e si ottiene una riduzione dell’orario di insegnamento da 18 a 15 ore. Questi ultimi docenti (circa il 17% della categoria) hanno maggiore retribuzione e considerazione, a metà tra il docente di scuola e quello universitario. In Germania è possibile svolgere funzioni diverse da quella docente, se si possiedono le competenze richieste, anche presso scuole diverse da quelle in cui si insegna.
In Italia invece, ad esclusione degli incrementi economici dovuti all’anzianità, non esistono possibilità di avanzamenti stabili di carriera, anche se da tempo si avanzano proposte in merito.
Solo per dare qualche esempio, ANP – l’Associazione Nazionale Dirigenti e alte Professionalità della Scuola – prospetta la differenziazione delle funzioni finalizzata alla gestione delle nuove complessità progettuali e organizzative, più livelli professionali all’interno dello status di docente, il passaggio ai livelli superiori a seguito di valutazione e formazione, con conseguenti, significativi e stabili miglioramenti economici; aumenti per anzianità più modesti, ma più ravvicinati nel tempo.
Si istituirebbero quindi tre distinti livelli di carriera, sanando l’anomalia per cui gli insegnanti sono gli unici dipendenti pubblici laureati confinati per tutta la loro vita professionale in un unico livello retributivo, il più basso fra quelli previsti a parità di titolo di studio.
Nei tre livelli dovranno essere inquadrati tutti i docenti, indipendentemente dal grado di scuola in cui prestano servizio e dal titolo di studio posseduto. La collocazione nei livelli non comporta sovraordinazione gerarchica, ma ha il solo scopo di riconoscere le diverse professionalità maturate e certificate.
In un altro interessante contributo, apparso sul sito della FLC-CGIL (Antonio Valentino, 2014), si sostiene che la complessità di funzionamento della scuola richieda il coinvolgimento e l’impegno in modo stabile dei docenti, per cui non sono congrui gli incentivi temporanei ma occorre una diversa progressione di carriera, che renda possibile la valorizzazione di particolari competenze professionali.
Propone di distinguere fra aree specialistiche (valutazione e sviluppo, rapporti con il territorio) e figure potenziate (collaborazione e coordinamento didattico-organizzativo).
Le figure specialistiche dovrebbero essere stabili e sull’intero orario di servizio; quelle di coordinamento all’interno del Collegio dovrebbero avere orario di servizio allungato e retribuito, oppure riduzione dell’orario di cattedra.
Per allontanare il rischio comportamenti “divisivi” all’interno del corpo docente vanno previsti scelte e dispositivi che, per un verso, garantiscano/favoriscano trasparenza e affidabilità dei criteri per la scelta, e misure premiali che non creino sperequazioni eccessive dentro la categoria.

Vorrei concludere proprio con parole prese da quel contributo: “Comunque, il timore dei rischi non può condannarci all’accettazione della situazione attuale. Perciò diventa imprescindibile l’impegno di tutti i soggetti interessati (in primo luogo: il ministero, ma anche le organizzazioni sindacali, le associazioni professionali e gli istituti competenti, le scuole da sole o in rete) a cercare risposte accettabili.”

 

Mara Carocci

Mara Carocci

Dirigente scolastico, è deputata PD e fa parte della VII Commissione-Cultura, Scienza e Istruzione della Camera.

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